il metodo mario benante

di gerardo rizzo

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  • L’architettrice

    L’architettrice

    Penso che il più bravo scrittore italiano vivente sia una scrittrice, e precisamente Melania Gaia Mazzucco. Penna felice, come dimostra nella ricostruzione dell’epopea dell’emigrazione italiana in “Vita”, si rivela una precisa ricercatrice ne “La lunga attesa dell’angelo”, in cui ripercorre la vita del Tintoretto, Jacopo Robusti, uno dei massimi pittori del Cinquecento, dal punto di vista del pittore stesso. Lo fa magistralmente nel suo ultimo lavoro, “L’architettrice”, in cui rivela alla folla dei non addetti ai lavori, me compreso, la meravigliosa esistenza di Plautilla Bricci, pittrice e architetta che, donna, opera nella Roma di Bernini e Borromini. Ricomposizione di un secolo, di una società, di un contesto artistico storico e politico complesso. Il tutto mantenendo sempre la “leggerezza” di un romanzo.

    (pubblicato su Facebook il 19/07/2020)

  • 1. L’Isola

    1. L’Isola

    L’Isola aveva questo nome perché così l’aveva battezzata un giorno il padre di Montagna. “Non dovete mai allontanarvi dal quartiere, dovete stare sempre nell’Isola.” Così aveva detto, e a noi era piaciuta l’idea dell’isola, del luogo isolato da dove noi non ci saremmo dovuti distaccare, ma nessuno sarebbe potuto arrivare. In realtà non sarebbe stato così: l’Isola – che in realtà si chiama Fondo Fucile – sarebbe stata permeabilissima, sia in entrata che in uscita, e ci vide sparire e rimpiazzare con grande velocità.

    All’Isola si arrivava a bordo di grandi camion scoperti, carichi delle masserizie di famiglia. Mobili incastrati uno sull’altro, e bambini sistemati sui mobili che si afferravano a qualunque cosa per non volare via, e i genitori che si affannavano a tenere sopra il camion mobili e figli, questi ultimi preziosi quasi quanto i mobili.

    Decine e decine di palazzine, che si arrampicavano sulle colline che separavano quel nuovo quartiere dallo storico villaggio Santo, che affondava le sue radici lontano nel tempo. E in cima a una di queste colline, l’eremo della Madonna degli Angeli, di fondazione secentesca. Non so perché si chiami Fondo Fucile, chissà chi era questo Fucile; solo poco più di mezzo secolo fa lì era ancora tutto campagna.

    L’Isola era ancora in formazione, quando ci andammo ad abitare, e tutte le palazzine erano disposte intorno a un gigantesco prato, dove sarebbero dovute le scuole, la parrocchia, la caserma dei carabinieri e un po’ di negozi. Riuscirono a costruire solo la scuola, poi sorsero baracche una accanto all’altra, con una rapidità impressionante, e ci rimasero per oltre cinquant’anni. Adesso non ci sono più, ma rimane una gigantesca distesa di inerti che chissà che fine farà. Addio caserma, addio chiesa, addio negozi. L’Isola rimase un gigantesco dormitorio e basta.

    I camion scaricarono il loro contenuto davanti ai portoni. A noi avevano assegnato una casa di tre stanze con un giardino, ma si rivelò troppo piccola. Alla famiglia di un amico di mio padre ne avevano assegnata una più grande, ma senza giardino. Ma lui aveva meno figli, e l’accordo per lo scambio si rivelò facile. Chi ebbe il pianoterra si recinse un pezzo di giardino e ci sputò un seme di nespola, così in tutti i giardini crebbero quegli alberi, che non avevano bisogno di niente e ogni anno davano un sacco di frutti.

    Era come se tutti quegli uomini avessero saputo che qualcuno, forse un filosofo, aveva detto che l’uomo è uomo solo se ha fatto un figlio e piantato un albero, e si fossero dati da fare per la seconda clausola, visto che la prima era stata ottemperata abbondantemente.

    La prova eravamo noi, che cominciammo fin da subito a popolare le strade dell’Isola.

  • Recensione a “La Fata e la Lupa” (Giusi Arimatea)

    Recensione a “La Fata e la Lupa” (Giusi Arimatea)

    I profumi della terra, note di testa dell’ultimo romanzo di Gerardo Rizzo

    Non è la penna del romanziere, non è la perizia dello storico, non è l’attaccamento alla propria terra del trapiantato, non è nemmeno la preziosità d’uno stile di scrittura che omaggia la lingua italiana adeguatamente collocata nel tempo e nello spazio.

    “La fata e la lupa” (ed. Nulla die), terzo romanzo di Gerardo Rizzo, è tutte queste cose insieme. È ancora una volta un atto d’amore nei confronti di quella Messina che non c’è più e che, con discrezione, affiora dalle pagine. Ora attraverso uno scorcio di paesaggio, ora attraverso un piatto tipico, ora attraverso le espressioni specifiche dei personaggi, i modi di fare, le visioni che il luogo ingenera.

    Nulla di tutto ciò appesantisce minimamente l’intreccio che contraddistingue il genere. Il giallo che si delinea a partire dalla scomparsa del notaio Girasella, e che si nutre d’una intricata e coerente matassa, frutto peraltro di grande destrezza narrativa, non abdica infatti all’inchiesta vera e propria per cedere il passo alle note di testa del romanzo che sono i profumi della terra. Questi, semmai, permeano le parole, si insinuano nelle descrizioni dei paesaggi, fanno capolino insieme alla verità, talora ingannano come sa ingannare il reale. Del resto “Messina è la città dove niente è come sembra”. Ed è a questo inconfutabile assioma che si riallaccia il titolo del romanzo: due illusioni ottiche sullo Stretto, generate da altrettanti fenomeni atmosferici, alle quali sembra essersi allineata la vita dentro i perimetri cittadini.

    Una vita che non si sarebbe scrutata con occhi altrettanto vigili se l’autore non avesse fatto ricorso a un espediente letterario che tramuta in asso nella manica la propria esperienza quotidiana: il delegato di Pubblica Sicurezza Edoardo Baldassa, veneto.

    Con precisione chirurgica, perfetta nei tempi e scanzonata nei modi, Gerardo Rizzo ci consegna un’inchiesta sull’uomo che procede parallelamente a quella del poliziotto. E Baldassa è un personaggio delizioso, di quelli che ti si incollano davanti agli occhi, quelli sui quali la Rai imbastisce sceneggiati. Baldassa, “per motivi che a lui stesso erano poco chiari, uno contento della vita che faceva”, è un essere umano e, come tale, possiede pregi e difetti. Ma i difetti sono di quella specifica categoria che affascina e il suo più grande pregio è l’apertura a quel mondo nuovo che dapprima sapeva di confino e poi, pian piano, ha cominciato a profumare di casa.

    Sfilano inoltre, insieme a lui, su quel fazzoletto di terra che affaccia sul mare, un gran numero di individui, molti dei quali provvisti di grande charme documentaristico. Per ciascuno l’autore ritaglia uno spazio più o meno ingente. Sono comunque tessere, meticolosamente cercate e trovate, che ricompongono il puzzle coprotagonista del romanzo: lo scenario. Più precisamente Messina tra il 1888 e il 1889.

    Dalla toponomastica alle tradizioni, dai mestieri alla malvivenza, dal porto alle campagne, dal silenzio complice alla loquacità davanti a un piatto di maccheroni e un bicchiere di vino buono. Sono i chiaroscuri di quegli anni, di quella città. E sono i chiaroscuri, trasfigurati – sia chiaro – dal tempo, di questa città, anche adesso.

    A Gerardo Rizzo il merito di averli scovati, da lontano, a dispetto dell’illusione ottica che sa essere la distanza, e di aver costruito attorno a loro una storia. Di quelle semplici, che eludono gli effetti speciali e che pure mirano dritto al cuore, con il loro prezioso, imprescindibile carico di umanità e poesia.