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La fata e la lupa, il giallo “classico” di Gerardo Rizzo per ritrovare Messina (di Eliana Camaioni)

La scomparsa di un notaio, un delegato di pubblica sicurezza che si barcamena tra ipotesi di suicidio, omicidio, di sparizione volontaria, rapimento. Sullo sfondo una città vivace, che non esiste più da oltre cent’anni È possibile raccontare la Messina di fine Ottocento, degli anni immediatamente precedenti alla catastrofe che ne cambiò per sempre il volto e l’anima, e ritrovare i suoi monumenti, le strade, gli abitanti, in una narrazione technicolor? La risposta è sì, e il piccolo capolavoro che lo dimostra è “La Fata e la Lupa”, di Gerardo Rizzo che sarà presentato oggi pomeriggio, alle 18.30, a Villa Cianciafara. Dedicato a Giovanni Raffaele, è un giallo classico che ha come protagonista il delegato di pubblica sicurezza Edoardo Baldassa, nativo di Castelfranco Veneto e confinato a Messina in mezzo ai selvadeghi per espiare un peccato mortale, colto in flagranza dal suo diretto superiore, sul luogo del delitto più antico del mondo. È così che Edoardo giunge in Sicilia, lontano dalle fin troppo amorevoli cure della madre e della aspirante moglie Carolina Vendramin, coccolato dall’ospitalità della padrona di casa dell’appartamento in cui risiede, e dalle braccia delle donne – artiste, per lo più- le cui grazie allietano i giorni difficili dell’indagine che gli viene affidata: la scomparsa del notaio Girasella, dileguatosi nel nulla dopo aver venduto per una cospicua somma di denaro il suo mestiere di notaio. Al fianco di Baldassa, l’appuntato Giovanni Rinaldi, e l’amico Arenaprimo, baronello di luminoso lignaggio, che istruiranno l’amico investigatore sulla natura particolare del territorio messinese, luogo in cui la fanno da padrone la Fata e la Lupa, due fenomeni naturali che, per rifrazione ottica o per nubi dense, alterano la percezione del reale: “Fuor di metafora” dirà Arenaprimo “potremmo dire che Messina è la città dove niente è come sembra; o dove niente appare nella sua interezza”.

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La recensione di Marcello Mento a “La Fata e la Lupa”


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La Taormina ruggente di Giuseppe Restifo

Taormina, una storia… e non solo, l’ultima produzione di Giuseppe Restifo, ripercorre grosso modo gli ultimi due secoli di storia dell’elegante cittadina della provincia messinese, concentrandosi soprattutto sulla sua evoluzione in chiave di attrattiva turistica. Il volume, rielaborazione di un testo uscito ormai quasi trent’anni fa per i tipi di Sicania, presenta in maniera forse più evidente del solito una delle principali caratteristiche dei libri dello storico messinese: l’assoluta godibilità di lettura. A leggere l’ultimo lavoro di Restifo ci si diverte proprio, anche se l’autore non deraglia mai dall’assoluto rigore storiografico che il suo lavoro gli impone.
Una storia della vocazione turistica del centro ionico non può non partire dall’epoca mitica del grand tour europeo, e si conclude, come sottolineato nella preziosa prefazione di Mario Bolognari (altro studioso di vaglia che per varie ragioni Taormina la conosce bene) a metà Novecento, in cui la separazione di antichi borghi taorminesi e la loro elezione a comuni autonomi – Giardini e Castelmola su tutti, ma anche Mongiuffi Melia, Letojanni e Gallodoro – ne hanno drasticamente ridotto la superficie “a dispetto di esigenze che si allargano”.
L’inizio del racconto è da manuale, con Goethe che descrive da par suo il teatro antico, e continua per duecentocinquanta pagine con una sapiente miscela di eventi storici e considerazioni di carattere sociale, accompagnati da un corredo iconografico di tutto rispetto, proveniente quasi per intero dal romanzo giallo di Cesare Giorgianni, Morte a Taormina, pubblicato dallo stesso editore di Restifo, Armando Siciliano.
Il racconto della vocazione turistica della cittadina prende le mosse dal Settecento: nella prima metà di quel secolo tornano alla luce i resti di Ercolano e Pompei e si riscopre la cultura classica. Le impronte dell’antica Roma si possono vedere principalmente in Italia, ma anche quelle greche conviene cercarle qua, perché la Grecia è ancora in mano ottomana e pertanto non facilmente visitabile. L’esempio più famoso di visitatori stranieri è quello dello stesso Goethe, con la cui descrizione del teatro greco si apre il volume: “Due vette collegate da un semicerchio. Quale sia stata la loro struttura naturale, fatto è che l’arte è venuta in aiuto”. Le pietre sono protagoniste, nei report che i visitatori stranieri lasciano della loro visita a Taormina; forse troppo secondo Restifo, che non nasconde la sensazione che i taorminesi, tanto quelli del XVIII secolo quanto quelli attuali, rimangano schiacciati dall’immaginario che ne producono i visitatori, e si modellino alla bisogna, derogando da quel senso di appartenenza, dall’identità che dovrebbe contrassegnare una comunità importante e antica come quella taorminese. È il caso di Francesco Strazzeri – padre dell’ottocentesco storico locale Emilio – per quarantadue anni custode delle antichità taorminesi, che viveva in una casupola a ridosso dell’ingresso del teatro: meglio conosciuto come “don Ciccio”, ecco come ne tramanda la memoria lo scrittore tedesco Carl August Schneegans: “Egli fu guida per il suo teatro a re, a principesse, ai più famosi artisti e scrittori; e al più arrogante e insulso commesso viaggiatore, girovagante per l’Italia, come ai principi e ai poeti, espose i suoi semplici disegni, recitò le sua citazioni fanciullesche”.
Certo, non sempre le impressioni che i viaggiatori ne riportano sono lusinghiere: a proposito delle strutture ricettive, Alexandre Dumas padre parla di “Infami tuguri, dove non era il caso di pranzare […] In Sicilia si mangia soltanto quello che si porta: in Sicilia non sono gli albergatori a nutrire i viaggiatori, ma sono questi ultimi che li sfamano”. Pensatela oggi, una considerazione di questo tipo…
Un elemento che Restifo mette in evidenza è lo squilibrio tra le notizie su Taormina che arrivano dall’esterno (cioè dai viaggiatori) rispetto alla produzione casalinga: paradossalmente, sono i primi che contribuiscono in maniera nettamente maggiore a formare, nel bene e nel male, l’immagine della città. Gonzalve de Nervo, che effettua il suo viaggio nel 1833, parla di una città senza commercio e senza industria, e indica nelle sue antichità l’unica attrattiva di Taormina; addirittura, sostiene che l’unica locanda dignitosa si trova a Giardini, “All’uso del paese”, caratterizzata dal fatto di essere gestita da un famoso ex bandito, che, peraltro, “ex” lo era da poco tempo.
Un ruolo importante nella consacrazione di Taormina a meta turistica lo ebbero senza dubbio i tedeschi. Due in particolare, per ragioni diverse, se ne misero in luce nella seconda metà dell’Ottocento, entrambi nobili ed entrambi artisti: il primo fu Otto von Geleng, pittore, che trovò ospitalità nella locanda di Francesco La Floresta nei primi tempi di quello che sarebbe stato il suo lungo soggiorno a Taormina. Fu lui, secondo la tradizione, a suggerire al locandiere di ingrandire la sua struttura e trasformarla in quello sarebbe diventato uno degli alberghi più iconici della città ionica. E gliene avrebbe anche suggerito il nome, in onore del mitico fondatore di Taormina, Timeo. Il barone von Geleng, a Taormina, ci sarebbe rimasto per il resto della sua vita, diventandone prosindaco e principale promotore turistico. Ritrasse nei quadri quello che vedeva dalle finestre del “Timeo” e lo inviava in Germania: i suoi lavori vennero ritenuti in patria graziosi, ma pieni di bizzarre forzature: come facevano a stare nella stessa inquadratura il mare, i resti greci, il vulcano e i fichidindia?
Fu proprio grazie a lui che arrivò a Taormina l’altra grande figura chiave, Wilhelm von Gloeden. Pittore anch’egli, presto convertito alla nuova arte della fotografia. Fotografò di tutto e lo mandò anche lui in Germania: ma quello che maggiormente è rimasto nell’immaginario – dei taorminesi e non solo – sono le sue ricostruzioni di scene della mitologia greca, in cui giovani taorminesi apparivano nudi. La cosa gli attirò, com’era ovvio, i pruriginosi strali dei benpensanti locali, soprattutto in tonaca, che vedevano nel nobile prussiano un corruttore dei costumi degli ingenui ragazzi siciliani. Ma Restifo mostra un documento che smentisce l’idea dell’innocenza dei taorminesi e ne dimostra invece la familiarità con la nudità: un’ordinanza del 1839 – decenni prima dell’arrivo di von Gloeden – che vietava di lavarsi a corpo nudo in mare e asciugarsi al sole in spiaggia: “il pensiero corre subito alle fotografie di von Gloeden della fine del secolo XIX e si può stabilire un nesso fra chi persevera in una pratica di nudità naturale e chi la coglie”. Sono solo alcuni degli innumerevoli spunti: una lettura integrale del libro ne vale pienamente il tempo.

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Quei tre anni. L’esordio di Giuseppe Pizzardi

È vero che certe esperienze, certe storie, ci covano dentro, e dormono per anni e anni, e poi alla fine si risvegliano, come dopo un lungo letargo, e come l’eruzione di un vulcano vengono fuori, ma non per forza con la carica distruttiva della lava, anzi tutt’altro. O forse in realtà queste esperienze non hanno mai dormito, bensì hanno lavorato, ci sono lievitate dentro, aspettando il momento giusto per farsi sentire. È quanto succede nel bel libro di Giuseppe Pizzardi, “Quei tre anni” (Scatole parlanti 2022), che racconta il triennio di formazione di un preadolescente e del fortissimo legame che si crea con l’assistente che per quei tre anni si sarebbe presa cura di lui e della sua crescita all’interno di un istituto religioso.
Non credo sia possibile leggere quella storia senza sentire che qualcosa ci è rimasto dentro: questa cosa vale sempre e in ogni caso, ma a maggior ragione per chi, come chi scrive, ha passato lunghi anni proprio mentre la storia narrata da Pizzardi “si fa”. Perché in realtà il “Pater Noster”, la struttura che è teatro della vicenda, è il nome fittizio che Pizzardi ha voluto dare a uno degli istituti più noti della città di Messina, da cui sono passate generazioni di alunni e convittori, ma anche di assistenti, come Pizzardi autore del romanzo, e di insegnanti, come chi scrive queste righe.
Attraverso la vicenda dei due protagonisti, si ricostruisce un intero sistema di vita che si svolgeva all’interno del “Pater Noster”: un sistema di vita che ha svolto per lungo tempo (non saprei dire, per la verità, cosa ne sia adesso) una funzione di cura per tanti ragazzini vi arrivavano con profondissime ferite dell’anima: ferite che venivano curate con pazienza e amore dai sacerdoti che vi stavano dentro, dagli assistenti che se ne prendevano cura al pomeriggio e, perché no?, anche dagli insegnanti che li avevano in consegna al mattino. Tutto il sistema di assistenza messo in piedi dalla congregazione religiosa che lo gestiva (stiamo parlando, fuor di metafora, dell’istituto “Cristo Re” dei padri Rogazionisti di Messina) ha rappresentato per tantissimi ragazzini che le tempeste della vita avevano davvero strapazzato, un porto sicuro e un accettabile succedaneo della famiglia che non avevano avuto, o che avevano avuto monca o devastata, o ancora che non era stata per loro luogo di sicurezza. All’interno del Pater Noster/Cristo Re, ogni ragazzo trovava una guida, un sostegno, un rifugio; o forse non è stato così per tutti (anzi di sicuro non lo è stato per tutti), ma per quasi tutti è stato messo tutto l’impegno possibile.
Così, dietro la storia di Mario e del suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza ci può stare un ragazzo preciso, che nell’esperienza di “Gioele” ha occupato un posto particolare, o ci può stare quasi chiunque dei ragazzi che hanno avuto il “Pater Noster” come famiglia.
E così come per Gioele, l’assistente romanzo, è una grande gioia vedere il proprio pupillo adulto, formato e realizzato, per tutti quelli che ci hanno messo un pezzo di sé in quell’avventura, è un piacere immenso incontrare a distanza di trenta o più anni quei bambini che nel frattempo sono uomini fatti e, per quanto possibile, curati nelle ferite.
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Il lago delle oche zelanti: la nuova indagine di Anna Dalù

Anna Dalù, eroina dei nostri tempi fatti di comunicazione e cortocircuiti, nata dalla frenetica tastiera di Enzo Basso, è giunta alla sua quinta avventura. Per i pochi che ancora non la conoscessero, Anna Dalù è una giornalista indipendente come il suo papà letterario, che si muove tra Roccavaldina dove vive e Messina dove agisce, ma le inchieste che deve svolgere – indagini che ruotano intorno al ricco patrimonio culturale siciliano – la portano in giro per tutta la regione a curiosare e a raccogliere informazioni. Immancabili al suo fianco i suoi soci fissi (il detective privato Giovanni Agati e il fotografo Pulce) e una pletora di personaggi che dalle vicende della Dalù entrano ed escono con grande leggerezza, e nella maggior parte dei quali i lettori più attenti possono riconoscere personaggi della Messina reale. O che a quelli somigliano molto…
Anche la Messina della realtà diventa protagonista delle storie di Anna. Al centro dell’intreccio di Il lago delle oche zelanti troviamo la Biblioteca Regionale e quella dei Cappuccini, scrigni di inestimabili tesori bibliografici, che Anna scopre essere regolarmente depredati da una rete di figuri che dietro la maschera degli accademici degli Zelanti coltivano la loro “passione insana del potere”.
Letture piacevoli, divertenti (particolarmente godibili i lunghi e frequenti dialoghi tra Anna Dalù e Giovanni Agati, che da confronti professionali diventano via via sottili schermaglie) che rivelano al lettore una faccia della città “babba” che Enzo Basso ha raccontato (pagandone salatissimi conti) nella sua lunga carriera giornalistica a Messina.
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Di donne, di ieri: il romanzo di Giusi Arimatea

Di donne, di ieri, recita il titolo, ma in realtà il libro parla delle donne di tutti i tempi, anche di quelli attuali e di quelli che verranno, purtroppo e per fortuna. Purtroppo perché ancora per un po’ ci sarà bisogno di donne che sappiano trovare il coraggio dentro se stesse, o nell’esempio di chi sta loro accanto. Per fortuna perché sarà grazie a personaggi come questi che il mondo può sperare di diventare un posto migliore. Stiamo parlando ovviamente dell’esordio narrativo di Giusi Arimatea, che ha solo momentaneamente messo da parte la sua attività di blogger, critica e autrice di teatro, cronista sportiva e curatrice di mostre d’arte, e per Natale ci ha regalato questa bellissima storia, stampata per i tipi della Pungitopo di Lucio Falcone.
Di donne, di ieri racconta le vicende di tre donne, di tre diverse generazioni, che a dispetto della differente età sono estremamente affini tra loro: lo sono la protagonista Lucrezia detta Lulù e la madre, ma lo è anche la vedova Pracanica (“sempre sia benedetta”, non manca di salmodiare la madre di Lulù ogni volta che la nomina), nonna elettiva: vedova, sia chiaro, di un marito che non è mai morto, ma la cui uscita di scena torna comoda a entrambi, salvo brevi apparizioni per esaudire desideri della sua vedova (o cedere ai suoi ricatti morali?).
È un romanzo di formazione, possiamo dire, che racconta le vicende di una giovane siciliana col pallino del giornalismo (a chi somiglierà mai?) che realizza il suo sogno a Milano, e che abbandona per tornare alle proprie radici.
Bella la scelta di adottare un doppio registro narrativo, con il racconto in prima persona di Lulù che si alterna con quello di un narratore esterno, anche se esterno lo è solo tecnicamente. Consiglio vivamente di leggerlo, perché chi conosce Giusi ce ne trova un pezzetto in Lulù, uno in sua madre e uno nella vedova Pracanica, sempre sia benedetta; e chi non la conosce, c’è da giurarci, ci troverà un pezzetto di se stesso.
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3. Due pezzi da cinquantamila

Le sere del 24 dicembre hanno un’aria particolare, lo insegna anche Dickens in “Racconto di Natale”. Siamo anche nei dintorni della notte più lunga dell’anno: fa buio presto, e se non hai davanti a te una notte di Natale particolare da trascorrere, sei anche più scazzato del solito, e noi non avevamo davanti nessuna notte di Natale da trascorrere se non a casa: cena, panettone e nanna. Quelli erano anni in cui andavamo in chiesa, anche se andare alla messa di mezzanotte era chiedere troppo; però ci sentivamo più buoni. Quella volta eravamo un terzetto insolito: io, Nino e Gino. Nino e Gino sono due nomi di fantasia, ça va sans dir, ma le persone erano assolutamente reali. Io e Nino, per la verità, eravamo sempre assieme, ma non saprei dire come mai Gino fosse con noi quella sera.
Stavamo alla fermata dell’autobus al Villaggio Aldisio, seduti su un muretto al buio, a discutere dei massimi sistemi del mondo e guardare passare i mezzi che correvano verso monte e verso valle. Passò il numero 12 verso monte, si fermò, fece scendere e salire le persone, ripartì, la zona ricadde nel buio. Noi vedemmo a terra una borsa femminile. Ci catapultammo per recuperarla, uno di noi – non saprei dire chi – la afferrò, e scappammo a perdifiato verso la campagna degli Angeli.
Quando ci sentimmo al sicuro, ci fermammo a rifiatare. Aprimmo la borsa e la vuotammo: nessuno lo disse, ma a distanza di tantissimo tempo sono sicuro che nelle teste di tutti passò il medesimo pensiero: speriamo che non ci siano documenti d’identità. Portafoglio, mazzo di chiavi, fazzolettini di carta, un mini beauty case con l’essenziale di cosmetici, qualche elastico, una penna a scatto. Il portafoglio rimase chiuso, nessuno lo voleva aprire, poi lo feci io: due pezzi da cinquantamila lire. E basta. Non una banconota più piccola, non una moneta. Solo due Bernini.
Facevamo già i conti per come dividere centomila per tre, quando nella penombra qualcosa fece capolino da una tasca del portafoglio: era lei, la carta d’identità. C’era un nome, un cognome, un indirizzo. Era la sera della vigilia di Natale. Come potevi portarti a casa centomila lire di una persona di cui conoscevi ormai tutto pur senza averla mai vista? Nessuno disse niente, e cominciammo a scendere da Fondo Fucile, verso l’indirizzo segnato sulla carta d’identità, passandoci la borsa da una mano all’altra; attraversammo la zona delle baracche, raschiando il fondo del barile della nostra ironia: attenti a non farci scippare, sennò sai che affare…
Ci dirigemmo all’indirizzo scritto su quella carta d’identità, cercammo il cognome sul citofono, suonammo, ci rispose la voce di una ragazza. “Abbiamo trovato una borsa.” Portone che si aprì, salimmo con l’ascensore (nessuno aveva l’ascensore, a Fondo Fucile), porta che si aprì. Si affacciò una ragazza un po’ più grande di noi, e io le allungai la borsa.
Lei sorrise, prese la borsa, ne tirò fuori il portafoglio. Sfilò una banconota da cinquantamila lire e con la faccia triste disse: “Io però qua dentro ci avevo DUE pezzi da cinquantamila… adesso ce n’è uno solo…”
Noi tre ci guardammo a lungo e ce ne andammo, ma ancora oggi nessuno ha confessato…
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La lobby degli AA. FF.

Certe volte mi viene di fare pensieri che non condivido, e quello di cui oggi parlo è uno di questi. E con ciò anticipo anche che non risponderò a eventuali commenti, ma mi farà piacere leggerli.
Pensavo alle elezioni, e al governo. Anche a quello in carica naturalmente: pensavo al governo di Giorgia (prego notare la corretta grafia), primo governo dopo tanto tempo a essere eletto dal popolo, e pertanto assolutamente legittimato a stare dov’è. Mi chiedevo, conseguentemente, come fa una parte politica ad andare al governo, in Italia. (A essere sinceri mi chiedevo come ha fatto “questa” parte politica ad arrivare al governo, ma meglio sorvolare…). E mi sono fatto il seguente ragionamento.
In Italia, di norma, va a votare il 60 o il 70% degli aventi diritto. Più vicino al 60 che al 70, nell’ultimo caso. Secondo me, siccome non mi risulta che ci siano turni per astenersi (del tipo “oggi rimango a casa io, alle europee io voto e tu vai al mare…”) la massa degli astenuti è sempre la stessa, sostanzialmente.
Il rimanente (facciamo il 65%, va’…) va a votare. Ora, di quel 65% della massa votante, all’incirca un 30% è di sinistra, ha sempre votato sinistra e sempre voterà sinistra; un altro 30% è di destra, ha sempre votato destra e sempre destra voterà. Rimane un 40%, che non sa dove ha la mano destra e la mano sinistra, ma comunque va a votare: ci va perché ha il seggio sotto casa, e ci passa tornando da messa o dal bar; ci va perché gli hanno dato il buono benzina; ci va perché il consigliere di quartiere ha fatto scrutatore il figlio, o ancora perché il tizio vuole confermare il reddito di cittadinanza o il caio lo vuole eliminare. Comunque ci va, e una volta vota da una parte e una volta vota dall’altra, determinando quale schieramento andrà a governare. Ed è nelle mani di questa massa ondivaga di analfabeti funzionali, che balla il destino dell’Italia.
parola di Mario Benante
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Per amore di Monna Lisa

Quando i personaggi storici diventano protagonisti di avventure letterarie, le loro vite, i loro pensieri, i loro sentimenti più reconditi diventano creta nelle mani di chi ne scrive le storie. O, come in questo caso, di chi le scrive e di chi le disegna. Questa volta è il turno di Vincenzo Peruggia, l’uomo che poco più di un secolo fa salì alla ribalta delle cronache per aver sottratto il quadro più famoso del mondo a uno dei musei più famosi del mondo. A raccontarne la storia sono oggi la penna di Marco Rizzo e la matita di Lelio Bonaccorso, che in Per amore di Monna Lisa ripercorrono le tappe del furto della famosissima tavoletta leonardesca, dandone una lettura volontariamente e dichiaratamente libera, come Rizzo specifica nella nota in coda al volume, e come lo stesso Bonaccorso, ancora all’inizio di quest’anno, dava del Vespro siciliano con il bellissimo Ventò di libertà.
La prima cosa che salta all’occhio è l’appeal sempre in crescita che la “Gioconda” esercita tra gli artisti e i loro fruitori: per un giovane di ieri come me il riferimento diretto è senz’altro Ivan Graziani; per quelli di avantieri potrebbe essere Nat King Cole, mentre magari quelli di oggi pensano a Leo Gassman. Senza contare le ispirazioni dei più grandi artisti, da Duchamp e Dalì a Botero e Warhol, fino a Basquiat e a Banksy.

Ma cosa ci raccontano i due autori messinesi, di questa storia oggi secolare? Che interpretazione danno delle intenzioni di questo omino con i baffoni a manubrio che progetta e attua il furto del secolo, sottraendo al Louvre il quadro per un malinteso spirito patriottico? Vuole davvero riconsegnare all’Italia ciò che le appartiene legittimamente (almeno secondo lui, ché invece il ritratto più famoso del mondo, in Francia ci sta di diritto, essendoci stato portato dallo stesso Leonardo) o gli basta rubarlo e fare uno sgarro alla detestata Francia, e poi magari, una volta che c’è, provare anche a tirarci su qualcosa? L’odioso monsieur Gobier, nei confronti del quale gli autori ammettono di essere stati piuttosto duri, in qualche modo rappresenta la Francia intera, così come il povero Peruggia rappresenta l’Italia, e si sa che fra i due paesi si alternano in continuazione tensioni e paci poco durevoli. A maggior ragione in quegli anni, gli ultimi di una belle époque che rovinava verso una guerra disastrosa. (E della capacità divisiva della Francia abbiamo un esempio ancora oggi, a mondiali di calcio prossimi alla conclusione).
“Noi abbiamo pensato a un’ossessione non del tutto lucida e abbiamo trasformato Peruggia in una vittima in cerca di riscatto”, dichiarano gli autori. Operazione perfettamente riuscita, direi, almeno dal mio punto di vista, considerato che ho continuato a tifare Peruggia anche mentre leggevo dei suoi maldestri tentativi di vendere il dipinto…
(Marco Rizzo, Lelio Bonaccorso, Per amore di Monna Lisa. Il più grande furto del XX secolo, Feltrinelli Comics 2022, € 17)
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2. Il cardellino

Dall’Isola si poteva andare via scendendo lungo il torrente Gazzi, che più avanti diventò viale Gazzi, quando ci si fece passare lo svincolo autostradale, e che portava alla zona del carcere; oppure per la via del Santo, che era quella che portava più al centro, perché sbucava praticamente sul viale Europa; o ancora per via Candore, che nessuno chiamava così, ma tutti la intendevamo “contrada Catalani”, o semplicemente Catalani, ma bisognava attraversare il rione Mangialupi, e se potevamo ce lo risparmiavamo, perché ad avere a che fare con quelli là non ci teneva nessuno. O quasi nessuno: ma questo sarà argomento di un’altra storia. Infine si poteva andare per Valle degli Angeli, forse la più breve, che ci portava in pieno Provinciale, alla chiesa. Provinciale per noi era il centro del mondo: c’erano negozi, bar, rosticcerie, e per questo Valle degli Angeli era la nostra discesa favorita.
Quel giorno, ritirandoci dal mare, stavamo tornando a casa salendo per Valle degli Angeli. Per andare a mare andavamo a piedi a Provinciale, prendevano il 7, che ci portava al Rialto Azzurro, sulla Panoramica, e poi scendevamo a Pace lungo la stradina di villa Bosurgi. Al ritorno facevamo il percorso al contrario.
Saranno state le tre del pomeriggio e faceva un caldo micidiale; salendo per la Valle, si arrivava al campo, che era un campetto di calcio a 5 quando il calcio a 5 non era ancora stato inventato (o almeno non era stato codificato), si scavalcava una bassa collina ed eravamo all’Isola. Poco prima del campetto, Sgabello notò in un balcone al pianterreno una gabbietta con un cardellino dentro: senza pensarci su un attimo, scavalcò, afferrò la gabbietta e scappò, anzi scappammo. Una vecchietta che stava esattamente di fronte a quel balcone, però, aveva notato la manovra e aveva iniziato a strillare: “Don Petru, don Petru, vi stann’arrubbannu!!”
Don Pietro fu fuori in men che non si dica, ma noi avevamo vantaggio e gioventù, e riuscimmo a seminarlo con facilità. Scavalcammo la collina e fummo all’Isola. Ci sedemmo in cima alle Scale, sopra la fermata dell’1, e stavamo a commentare la giornata, quando una macchina, una Giulia grigio scuro, si fermò alla base della scalinata: “Scusate, sapete dove abita la famiglia Gugliandolo?”
Noi lo sapevamo. Sgabello lo sapeva, e con la gabbietta sottobraccio si avvicinò all’auto, seguito da Montagna, il quale ebbe l’illuminazione: “Ma è don Petru, scappamu!!”
In effetti era il padrone del cardellino, con due sgherri più giovani, che non avendo potuto raggiungerci a piedi, aveva fatto il giro con la macchina e ci aveva raggiunti. Scappammo, tutti per direzioni differenti; Sgabello e Montagna andarono in basso, verso le baracche, e si infilarono nel labirinto. Noi, che eravamo fuggiti verso l’alto, capimmo che nessuno ci avrebbe più inseguito, e tornammo indietro a curiosare. Facemmo in tempo a vedere dallo Spiazzale, un punto sopraelevato, che i nostri due compagni si erano infilati nella baraccopoli, e subito si erano divisi: Montagna si infilò nei vicoli strettissimi, sparendo subito alla vista; Sgabello costeggiò il recinto della scuola media, non si avvide di un filo messo da qualcuno delle baracche per stendere i panni, lo prese in pieno con la gola, rimanendovi impigliato. Finì prima in orizzontale, poi cadde pesantemente a terra; la gabbietta gli volò dalle mani e cadde un poco più in là, lui rimase tramortito in terra, tanto che lo demmo per spacciato.
Invece accadde un prodigio: don Petru e i suoi due sgherri lo ignorarono, e si misero alle calcagna di Montagna. Dopo qualche minuto Sgabello si alzò, mezzo intontito, e si sedette in cima alle scale con noi. Dopo un po’ vennero fuori i tre giustizieri, raccolsero la gabbietta, montarono in macchina e partirono. Dopo ancora, dall’intrico di baracche venne fuori Montagna, con la maglietta strappata, pieno di lividi e la bocca sanguinante. Sedette anche lui con noi, ma nessuno ebbe animo di aprir bocca. Dopo fu lui stesso a parlare: “Ero riuscito a sfuggire, correvo all’impazzata, ma a un certo punto mi sono ritrovato in un vicolo cieco. Sono tornato indietro di qualche passo, mi sono nascosto dietro una pila per lavare la biancheria e mi sono fatto piccolo piccolo. Ho sentito i passi di quelli che correvano, li ho sentiti arrivare alla fine del vicolo, fermarsi, bestemmiare e tornare indietro lentamente, fino ad allontanarsi. Poi ho sentito una voce di bambina, ma di una bambina proprio piccola, chiamare: allèi, allèi!!… ccà è! E i passi di quelli che tornavano, mi circondavano, e mi conciavano come mi vedete…”