Sembra che i siciliani abbiano una certa tendenza a idolatrare la propria classe dirigente. Non tutti i siciliani, ovviamente, magari una buona parte. O una parte, o una piccola parte, magari piccolissima. Però è sicuro che questa piccolissima parte di siciliani adora essere “cliente”, ama ossequiare e omaggiare i propri rappresentanti, che siano ai comuni, alla regione o al parlamento nazionale. E pare che questa tendenza siciliana abbia radici lontane, fino ai tempi della feudalità, che però dalle nostre parti è durata più che altrove, anche molto tempo dopo la sua ufficiale abolizione.
Forse è per questo che ci piace eleggere i nostri rappresentanti di riferimento non dopo un vaglio delle loro proposte, ma per appartenenza politica, per convenienza, per clientela appunto. O perché meglio ci sembrano incarnare quei modelli di signorotti feudali, che ci trattano un po’ come le loro anime morte. Non si spiega altrimenti che una parte di siciliani – sempre piccola, va da sé – possa arrivare a votare Lega e mandare al parlamento rappresentanti di quel partito: probabilmente il ragionamento è che se stavolta il signorotto si schiera con la Lega, è giusto che tutti noi gli si dia il voto.
Di recente mi sono imbattuto in un libro che un po’ spiega questa situazione, e che sembra fare degli interessanti paralleli tra i tempi andati e quelli presenti. Si tratta di L’ultimo principe di Sicilia, di Elio Manili (edizioni Bonfirraro 2023), una biografia romanzata di Ercole Michele Branciforte (1750-1814), ultimo grande esponente della più importante famiglia aristocratica siciliana, i principi di Butera: quello che vide il passaggio dall’età feudale a quella postfeudale.
Certo, Manili si avventura in territorio insidioso
, perché quegli sono gli anni di cui ci hanno raccontato Luigi Natoli in Coriolano della Floresta e Leonardo Sciascia in Il Consiglio d’Egitto: anni di lotte tra corona e nobiltà, corona e popolo, e la nobiltà si frappone spesso a mediare. Soprattutto il Branciforte, con il famoso stemma del leone con le zampe mozze che tiene la bandiera: a dimostrare la grandezza della casata, quella non è una bandiera qualsiasi, ma l’orifiamma, il vessillo dei franchi. I Branciforte si vantano infatti di discendere da Obizzo, che durante una battaglia contro i longobardi, circondato dai nemici, difese strenuamente la bandiera del suo re rimettendoci le braccia: con un capostipite di tal fatta, i Branciforte dovevano essere per forza i principi più importanti di Sicilia.
Un principe così potente poteva a buon diritto proporsi come interlocutore fra le maestranze palermitane e il potere del viceré. Scendere a patti con i rappresentanti dei mestieri. Poteva diventare gentiluomo di camera del re Ferdinando, e avere notizie di prima mano. O al viceré stesso poteva opporsi: è il caso di quello che succede all’arrivo a Palermo di Domenico Caracciolo, di gran lunga il più odiato dall’aristocrazia siciliana. In una tornata di scherma con il principe di Villafranca, Ercole Michele gli annuncia l’imminente arrivo del nuovo viceré: “Ho avuto modo di conoscerlo a Napoli e vi assicuro che è un uomo tutto d’un pezzo, poco malleabile, e soprattutto è un fanatico delle nuove idee illuministiche”. “Si annunciano tempi molto difficili per noi?” “Temo proprio di sì. Comunque non dobbiamo piangerci addosso… Noi siamo troppo potenti e se lui darà fastidio faremo in modo di sbarazzarcene così come è avvenuto con il Fogliani”.
E in effetti Caracciolo, con le sue idee moderne, rappresentava un vero pericolo per i privilegi di clero e aristocrazia: avrebbe voluto addirittura chiedere un nuovo censimento di tutti i possedimenti terrieri, per poter suddividere anche tra i più ricchi il peso che fino a quel momento cadeva solo sulle spalle delle masse, e questo i nobili non lo avrebbero sopportato.
“E non solo”, si scandalizzava un altro nobile, il principe della Cattolica, “vuole dare la possibilità ai nostri contadini di andare a lavorare dove sono meglio pagati, riconoscendo loro il diritto di panificare e frangere le olive dove desiderano. Insomma, questo è un folle rivoluzionario che vuole condurci al lastrico!” Un vero pericolo…
Dal racconto della vita dell’ultimo grande feudatario siciliano, traspare forse una certa ammirazione da parte di Manili nei confronti del suo protagonista: manca forse – chiarissimo invece in Sciascia – un po’ di biasimo per il retaggio che quel sistema politico ha lasciato fino ai nostri giorni…
Mario Benante