Taormina, una storia… e non solo, l’ultima produzione di Giuseppe Restifo, ripercorre grosso modo gli ultimi due secoli di storia dell’elegante cittadina della provincia messinese, concentrandosi soprattutto sulla sua evoluzione in chiave di attrattiva turistica. Il volume, rielaborazione di un testo uscito ormai quasi trent’anni fa per i tipi di Sicania, presenta in maniera forse più evidente del solito una delle principali caratteristiche dei libri dello storico messinese: l’assoluta godibilità di lettura. A leggere l’ultimo lavoro di Restifo ci si diverte proprio, anche se l’autore non deraglia mai dall’assoluto rigore storiografico che il suo lavoro gli impone.

Una storia della vocazione turistica del centro ionico non può non partire dall’epoca mitica del grand tour europeo, e si conclude, come sottolineato nella preziosa prefazione di Mario Bolognari (altro studioso di vaglia che per varie ragioni Taormina la conosce bene) a metà Novecento, in cui la separazione di antichi borghi taorminesi e la loro elezione a comuni autonomi – Giardini e Castelmola su tutti, ma anche Mongiuffi Melia, Letojanni e Gallodoro – ne hanno drasticamente ridotto la superficie “a dispetto di esigenze che si allargano”.

L’inizio del racconto è da manuale, con Goethe che descrive da par suo il teatro antico, e continua per duecentocinquanta pagine con una sapiente miscela di eventi storici e considerazioni di carattere sociale, accompagnati da un corredo iconografico di tutto rispetto, proveniente quasi per intero dal romanzo giallo di Cesare Giorgianni, Morte a Taormina, pubblicato dallo stesso editore di Restifo, Armando Siciliano.

Il racconto della vocazione turistica della cittadina prende le mosse dal Settecento: nella prima metà di quel secolo tornano alla luce i resti di Ercolano e Pompei e si riscopre la cultura classica. Le impronte dell’antica Roma si possono vedere principalmente in Italia, ma anche quelle greche conviene cercarle qua, perché la Grecia è ancora in mano ottomana e pertanto non facilmente visitabile. L’esempio più famoso di visitatori stranieri è quello dello stesso Goethe, con la cui descrizione del teatro greco si apre il volume: “Due vette collegate da un semicerchio. Quale sia stata la loro struttura naturale, fatto è che l’arte è venuta in aiuto”. Le pietre sono protagoniste, nei report che i visitatori stranieri lasciano della loro visita a Taormina; forse troppo secondo Restifo, che non nasconde la sensazione che i taorminesi, tanto quelli del XVIII secolo quanto quelli attuali, rimangano schiacciati dall’immaginario che ne producono i visitatori, e si modellino alla bisogna, derogando da quel senso di appartenenza, dall’identità che dovrebbe contrassegnare una comunità importante e antica come quella taorminese. È il caso di Francesco Strazzeri – padre dell’ottocentesco storico locale Emilio – per quarantadue anni custode delle antichità taorminesi, che viveva in una casupola a ridosso dell’ingresso del teatro: meglio conosciuto come “don Ciccio”, ecco come ne tramanda la memoria lo scrittore tedesco Carl August Schneegans: “Egli fu guida per il suo teatro a re, a principesse, ai più famosi artisti e scrittori; e al più arrogante e insulso commesso viaggiatore, girovagante per l’Italia, come ai principi e ai poeti, espose i suoi semplici disegni, recitò le sua citazioni fanciullesche”.

Certo, non sempre le impressioni che i viaggiatori ne riportano sono lusinghiere: a proposito delle strutture ricettive, Alexandre Dumas padre parla di “Infami tuguri, dove non era il caso di pranzare […] In Sicilia si mangia soltanto quello che si porta: in Sicilia non sono gli albergatori a nutrire i viaggiatori, ma sono questi ultimi che li sfamano”. Pensatela oggi, una considerazione di questo tipo…

Un elemento che Restifo mette in evidenza è lo squilibrio tra le notizie su Taormina che arrivano dall’esterno (cioè dai viaggiatori) rispetto alla produzione casalinga: paradossalmente, sono i primi che contribuiscono in maniera nettamente maggiore a formare, nel bene e nel male, l’immagine della città. Gonzalve de Nervo, che effettua il suo viaggio nel 1833, parla di una città senza commercio e senza industria, e indica nelle sue antichità l’unica attrattiva di Taormina; addirittura, sostiene che l’unica locanda dignitosa si trova a Giardini, “All’uso del paese”, caratterizzata dal fatto di essere gestita da un famoso ex bandito, che, peraltro, “ex” lo era da poco tempo.

Un ruolo importante nella consacrazione di Taormina a meta turistica lo ebbero senza dubbio i tedeschi. Due in particolare, per ragioni diverse, se ne misero in luce nella seconda metà dell’Ottocento, entrambi nobili ed entrambi artisti: il primo fu Otto von Geleng, pittore, che trovò ospitalità nella locanda di Francesco La Floresta nei primi tempi di quello che sarebbe stato il suo lungo soggiorno a Taormina. Fu lui, secondo la tradizione, a suggerire al locandiere di ingrandire la sua struttura e trasformarla in quello sarebbe diventato uno degli alberghi più iconici della città ionica. E gliene avrebbe anche suggerito il nome, in onore del mitico fondatore di Taormina, Timeo. Il barone von Geleng, a Taormina, ci sarebbe rimasto per il resto della sua vita, diventandone prosindaco e principale promotore turistico. Ritrasse nei quadri quello che vedeva dalle finestre del “Timeo” e lo inviava in Germania: i suoi lavori vennero ritenuti in patria graziosi, ma pieni di bizzarre forzature: come facevano a stare nella stessa inquadratura il mare, i resti greci, il vulcano e i fichidindia?

Fu proprio grazie a lui che arrivò a Taormina l’altra grande figura chiave, Wilhelm von Gloeden. Pittore anch’egli, presto convertito alla nuova arte della fotografia. Fotografò di tutto e lo mandò anche lui in Germania: ma quello che maggiormente è rimasto nell’immaginario – dei taorminesi e non solo – sono le sue ricostruzioni di scene della mitologia greca, in cui giovani taorminesi apparivano nudi. La cosa gli attirò, com’era ovvio, i pruriginosi strali dei benpensanti locali, soprattutto in tonaca, che vedevano nel nobile prussiano un corruttore dei costumi degli ingenui ragazzi siciliani. Ma Restifo mostra un documento che smentisce l’idea dell’innocenza dei taorminesi e ne dimostra invece la familiarità con la nudità: un’ordinanza del 1839 – decenni prima dell’arrivo di von Gloeden – che vietava di lavarsi a corpo nudo in mare e asciugarsi al sole in spiaggia: “il pensiero corre subito alle fotografie di von Gloeden della fine del secolo XIX e si può stabilire un nesso fra chi persevera in una pratica di nudità naturale e chi la coglie”. Sono solo alcuni degli innumerevoli spunti: una lettura integrale del libro ne vale pienamente il tempo.