È vero che certe esperienze, certe storie, ci covano dentro, e dormono per anni e anni, e poi alla fine si risvegliano, come dopo un lungo letargo, e come l’eruzione di un vulcano vengono fuori, ma non per forza con la carica distruttiva della lava, anzi tutt’altro. O forse in realtà queste esperienze non hanno mai dormito, bensì hanno lavorato, ci sono lievitate dentro, aspettando il momento giusto per farsi sentire. È quanto succede nel bel libro di Giuseppe Pizzardi, “Quei tre anni” (Scatole parlanti 2022), che racconta il triennio di formazione di un preadolescente e del fortissimo legame che si crea con l’assistente che per quei tre anni si sarebbe presa cura di lui e della sua crescita all’interno di un istituto religioso.

Non credo sia possibile leggere quella storia senza sentire che qualcosa ci è rimasto dentro: questa cosa vale sempre e in ogni caso, ma a maggior ragione per chi, come chi scrive, ha passato lunghi anni proprio mentre la storia narrata da Pizzardi “si fa”. Perché in realtà il “Pater Noster”, la struttura che è teatro della vicenda, è il nome fittizio che Pizzardi ha voluto dare a uno degli istituti più noti della città di Messina, da cui sono passate generazioni di alunni e convittori, ma anche di assistenti, come Pizzardi autore del romanzo, e di insegnanti, come chi scrive queste righe.

Attraverso la vicenda dei due protagonisti, si ricostruisce un intero sistema di vita che si svolgeva all’interno del “Pater Noster”: un sistema di vita che ha svolto per lungo tempo (non saprei dire, per la verità, cosa ne sia adesso) una funzione di cura per tanti ragazzini vi arrivavano con profondissime ferite dell’anima: ferite che venivano curate con pazienza e amore dai sacerdoti che vi stavano dentro, dagli assistenti che se ne prendevano cura al pomeriggio e, perché no?, anche dagli insegnanti che li avevano in consegna al mattino. Tutto il sistema di assistenza messo in piedi dalla congregazione religiosa che lo gestiva (stiamo parlando, fuor di metafora, dell’istituto “Cristo Re” dei padri Rogazionisti di Messina) ha rappresentato per tantissimi ragazzini che le tempeste della vita avevano davvero strapazzato, un porto sicuro e un accettabile succedaneo della famiglia che non avevano avuto, o che avevano avuto monca o devastata, o ancora che non era stata per loro luogo di sicurezza. All’interno del Pater Noster/Cristo Re, ogni ragazzo trovava una guida, un sostegno, un rifugio; o forse non è stato così per tutti (anzi di sicuro non lo è stato per tutti), ma per quasi tutti è stato messo tutto l’impegno possibile.

Così, dietro la storia di Mario e del suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza ci può stare un ragazzo preciso, che nell’esperienza di “Gioele” ha occupato un posto particolare, o ci può stare quasi chiunque dei ragazzi che hanno avuto il “Pater Noster” come famiglia.

E così come per Gioele, l’assistente romanzo, è una grande gioia vedere il proprio pupillo adulto, formato e realizzato, per tutti quelli che ci hanno messo un pezzo di sé in quell’avventura, è un piacere immenso incontrare a distanza di trenta o più anni quei bambini che nel frattempo sono uomini fatti e, per quanto possibile, curati nelle ferite.