L’Isola aveva questo nome perché così l’aveva battezzata un giorno il padre di Montagna. “Non dovete mai allontanarvi dal quartiere, dovete stare sempre nell’Isola.” Così aveva detto, e a noi era piaciuta l’idea dell’isola, del luogo isolato da dove noi non ci saremmo dovuti distaccare, ma nessuno sarebbe potuto arrivare. In realtà non sarebbe stato così: l’Isola – che in realtà si chiama Fondo Fucile – sarebbe stata permeabilissima, sia in entrata che in uscita, e ci vide sparire e rimpiazzare con grande velocità.
All’Isola si arrivava a bordo di grandi camion scoperti, carichi delle masserizie di famiglia. Mobili incastrati uno sull’altro, e bambini sistemati sui mobili che si afferravano a qualunque cosa per non volare via, e i genitori che si affannavano a tenere sopra il camion mobili e figli, questi ultimi preziosi quasi quanto i mobili.
Decine e decine di palazzine, che si arrampicavano sulle colline che separavano quel nuovo quartiere dallo storico villaggio Santo, che affondava le sue radici lontano nel tempo. E in cima a una di queste colline, l’eremo della Madonna degli Angeli, di fondazione secentesca. Non so perché si chiami Fondo Fucile, chissà chi era questo Fucile; solo poco più di mezzo secolo fa lì era ancora tutto campagna.
L’Isola era ancora in formazione, quando ci andammo ad abitare, e tutte le palazzine erano disposte intorno a un gigantesco prato, dove sarebbero dovute le scuole, la parrocchia, la caserma dei carabinieri e un po’ di negozi. Riuscirono a costruire solo la scuola, poi sorsero baracche una accanto all’altra, con una rapidità impressionante, e ci rimasero per oltre cinquant’anni. Adesso non ci sono più, ma rimane una gigantesca distesa di inerti che chissà che fine farà. Addio caserma, addio chiesa, addio negozi. L’Isola rimase un gigantesco dormitorio e basta.
I camion scaricarono il loro contenuto davanti ai portoni. A noi avevano assegnato una casa di tre stanze con un giardino, ma si rivelò troppo piccola. Alla famiglia di un amico di mio padre ne avevano assegnata una più grande, ma senza giardino. Ma lui aveva meno figli, e l’accordo per lo scambio si rivelò facile. Chi ebbe il pianoterra si recinse un pezzo di giardino e ci sputò un seme di nespola, così in tutti i giardini crebbero quegli alberi, che non avevano bisogno di niente e ogni anno davano un sacco di frutti.
Era come se tutti quegli uomini avessero saputo che qualcuno, forse un filosofo, aveva detto che l’uomo è uomo solo se ha fatto un figlio e piantato un albero, e si fossero dati da fare per la seconda clausola, visto che la prima era stata ottemperata abbondantemente.
La prova eravamo noi, che cominciammo fin da subito a popolare le strade dell’Isola.